Quello che sono

Sono fatta di tabacco, un respiro profondo per il pacco appena aperto: mi porta a quando bambina andavo, mano nella mano con mia sorella, verso la scuola. A piedi, bambine, da sole. Perché allora andava bene così. Le signore erano sedute sulla soglia dei garage e infilavano con precisione e velocità una foglia dopo l’altra su fili di ferro, da stendere al sole a seccare e il profumo pungeva le narici. Sulla strada parellala c’erano le campagne, nel mezzo larghi filari coperti di tele bianche, lì si riposavano le foglie nel tepore.
Sono fatta di tepore, quello che cerco nelle persone, in maniera maniacale, con la convinzione che tutti ne abbiano un po’, con la caparbietà nel voler essere io a tirare fuori un tremito anche ai cuori più chiusi, impenetrabili. Come tutte le volte che ho provato con mio padre, fino a rinunciarci.
Sono fatta di rinunce, non sono all’altezza, non sono bella, non sono magra, quindi rinuncio. Rinuncio a pensare di meritare delle cose, rinuncio a voler eccellere e quando succede me ne vergogno.
Sono fatta di vergogna, per quel che sento di essere e non voglio mostrare, per quel che vedo di me e non trovo abbastanza, vergogna anche per le parole che scrivo, anche se le esibisco.
Sono fatta di esibizione, perché pur non trovandomi bella, ho trovato nel fotografarmi il modo per accettarmi, per pensare al mio corpo imperfetto come bello perché unico: la bruciatura sul braccio sinistro; l’impronta della sbucciatura presa nella caduta in bicicletta; la cicatrice dei tre punti sull’anulare destro; le striature causate da un bacio di scogliera alla mia coscia sinistra. Sono io. Nessun altro li ha. Ho bisogno di esibirmi perché negli occhi degli altri possa amare i miei.
Sono fatta d’amore e quanto suona patetico scriverlo, rido di me stessa che nemmeno lo conosco l’amore, nemmeno so se ho mai davvero amato, ma so che so darne. So curare, carezzare, accudire le persone a cui voglio bene, a volte troppo, a volte senza ragione. Mi dedico, perché ho fatto dell’essere utile una necessità.
Sono fatta di necessità. Quella di stare da sola e quella di volere qualcuno accanto. Quella di voler capire e quella di essere abbastanza stupida da non intendere affatto. Quella di sentirmi indipendente e di dipendere da qualcuno.
Sono fatta di dipendenze. La scrittura, la rappresentazione, le parole, la solitudine e la compagnia, il cibo – buono -, il vino, gli amici, il piumone, le serie, il telefono, le cose belle, il tabacco. L’amore.

Sorprese

La lavatrice mi guarda con il bucato da stendere, fuori il cielo finalmente terso. Il sole che mi dice, dai manda quel messaggio e concedi tempo di conoscenza a qualcuno che è appena entrato nella tua vita. Sono un cumulo di incertezze. Da due giorni so che la scelta è tra correre il rischio di andare via da qui, in questa azienda che di sano ha proprio poco, o ricominciare da qui, rischiando di stare ferma per un po’. Da due giorni penso a un bacio rubato che mi ha colta di sorpresa e portata fino a casa, guidando con mille interrogativi in testa, mentre ogni tanto mi sfioravo le labbra. E le cose nuove ci colgono di sorpresa che siano belle o brutte.
Mi faccio abbracciare dal divano come in attesa degli eventi, come se qualcuno mi potesse dire cosa fare. Invece dovrei decidere io se è il caso di lasciare da parte il solito narcisista che mi prende la testa e andare incontro a qualcuno che potrebbe darmi molto di più di serate tra tappeti, vinili e oggetti dal mondo, potrebbe darmi affetto vero. Dovrei riscrivere il mio curriculum, farcirlo di parole inglesi che danno l’impressione di saper fare cose inenarrabili solo perché è questo che attrae i cacciatori di teste. Abbiamo una lingua bellissima, ma pare non sia abbastanza affascinante per il patinato mondo della moda che vive di brand, di manager, di analyst, di follow-up. Sto qui mentre mi chiedo come pagherò i prossimi affitti, chi mi abbraccerà per confortarmi, se potrò permettermi di riparare il forno, se presto qualcuno dormirà a cucchiaio con me. Non so nulla, vorrei potermi fermare un po’, e invece tutto corre e corre veloce da agosto e io mi sto affannando e sono stanca. Stanca di lottare, stanca di rincorrere, stanca anche di pensare.

I rapporti liquidi dei tempi moderni

Ho scritto il post precedente sull’onda di un desiderio, qualcuno ha pensato fosse nostalgia per una persona che ho incontrato, che esiste, la realtà è che questi rapporti sono un sogno ora come ora. Con molte mie amiche ci si confronta sugli incontri, sulle storie che viviamo. Donne tra i 35 e i 40 o poco più anni con le quali condivido la perplessità per questo atteggiamento che impera nell’universo maschile. Attenzione, non è un “j’accuse” da femminista, ma per ora non ho avuto lo stesso riscontro dagli amici uomini single.
I mezzi possono essere i più svariati, incontri casuali tra le cerchie di amici, le app, i social, ormai raramente conoscenze in locali, un po’ perché non si usa (magari anche per l’età), un po’ perché avvicinare gli sconosciuti è diventato un taboo, soprattutto in città come Milano. Il risultato è sempre più o meno lo stesso. Ci si annusa, ci si piace, seguono estenuanti sessioni di messaggi (ché le telefonate non sono contemplate, altro argomento su cui mi interrogo spesso) che possono essere più o meno ammiccanti. Si arriva all’appuntamento, agli appuntamenti, si finalizza e sempre più spesso non si tratta di incontri che finiscono con quella serata che placa la voglia di scoperta sessuale. Lo schema che si instaura è quello del continuiamo a vederci saltuariamente, non ci sentiamo tutti i giorni percarità (contrariamente ai primi tempi in cui vi siete consumati i polpastrelli su uno schermo in botta e risposta ripetuti e continui, persino il buongiorno e buonanotte in alcuni casi) ma poi ci si trova di tanto in tanto, si beve insieme un bicchiere di vino o si cena, si chiacchiera anche piacevolmente e si finisce a letto. In sostanza non c’è nulla che non vada, si sta bene insieme, a singhiozzo, senza quotidianità, senza impegni prefissati. Quelli moderni sono rapporti fondati sulla trombamicizia. Nulla da dire, ci sono stati momenti in cui quello che mi andava di vivere era esattamente quel tipo di rapporto, ma ormai è una consuetudine diffusa, anzi metodica.
A un certo punto però hai voglia di qualcuno da cui tornare la sera, con cui parlare di tutto, dalle cazzate ai malumori, da cui farti scaldare i piedi e a cui preparare la colazione, qualcuno con cui non ti devi preoccupare se non hai una depilazione perfetta o hai mangiato l’aglio (tanto l’ha mangiato pure lui). Come dice la mia amica Silvia: “A un certo punto ti rompi il cazzo di provare tanti ristoranti e ti piace cucinare bene e mangiare a casa tua”.
Ma l’uomo moderno pare non avvertire questa voglia di normalità, instaura questi rapporti e spesso li porta avanti anche per mesi. Apprezza la comodità del sesso assicurato senza i week end fuori, senza dover condividere un letto anche quando non si è svegli, il non dover dar conto a nessun cosahaifatto, doveseistato. Ma non viene voglia di condivisione prima o poi? Non manca il calore, il vissuto, persino i litigi costruttivi? La identifico come paura di misurarsi con una relazione, ma sono aperta a qualsiasi spiegazione. Gli uomini disposti alla progettualità sono rari. Non sono una che crede tanto nel per sempre, con un matrimonio alle spalle mi sento abbastanza disillusa, è all’intenzione che mi riferisco. Uno ci prova, poi le cose possono non andare bene, ma almeno ci prova a far sì che una cosa funzioni.

“Mi sono rotto il cazzo
Degli esperimenti del frequentiamoci ma senza impegno
Stiamo insieme ma non vediamoci che poi ho paura
Anzi vediamoci quanto ci pare
Ma vediamoci in compagnia
Mi sono rotto il cazzo dei codardi con l’amore degli altri
Mi sono rotto il cazzo perché poi non si dorme più
Si sta svegli finchè non muore la speranza
Maledetta stronza che non muore mai mentre io vorrei dormire”

https://www.youtube.com/watch?v=aJlaKcmW-nk

Continuare a esserci

Se tu ora fossi qui, per esempio, ti direi: “Ci troviamo domattina in quel bar che fa dei cornetti che io ci vado matta?” Diresti sì, solo per vedere come riesco a cospargermi di zucchero a velo e riderne. Se fossi qui mi saluteresti prima di una giornata di lavoro con un bacio sulla fronte, un bacio con sorriso allegato però. Se ci fossi mi porteresti sabato in un posto qualsiasi e mentre guidi io ti parlerei fitto e tu mi sopporteresti e accetteresti di sentire la musica che io voglio sentire. Mi porteresti in quel posto tra gli animali e la campagna, anche se c’è brutto tempo, ci metteremmo le galosce e io, dimenticando i problemi, correrei verso la pozzanghera più grande per saltarci dentro, con il sorriso più largo che il mio viso possa ospitare.
Se tu ora fossi qui, torneremmo mesti verso la città e arrivati sotto casa mia ti tratterrei con scuse stupide solo per riflettermi ancora un poco nei tuoi occhi, che da lì mi vedo bella. Se fossi qui faresti come se non ti importasse nulla, solo per un po’, solo per non scadere nel melenso, che a queste cose ci penserei già io. Se ci fossi ti porterei nei posti che amo di più, pretenderei di vedere quelli che ami tu, anche per scoprire che siamo diversi e, nonostante questo, continuare a esserci.

R.

Un post di qualche tempo fa che torna attuale per racconti di amiche che vorrei riuscissero a vedere cose che l’amore fa dimenticare.

Volevo Solo Scrivere

Stringevi forte tu. Hai saputo tenermi incastrata per tre lunghi anni e io mi sono lasciata fare. L’immagine che ho di te è così tremendamente incisa nella testa che non passerà mai, anche per non lasciarmi risucchiare da qualcun altro come è successo con te.
La prima volta ti ho incontrato in una stazione e dentro di me ripetevo che non doveva succedere nulla e invece è successo tutto.
Tu hai distrutto una ragazza ingenua e dedita alla normalità noiosa e di questo in fondo te ne sarei grata se non fosse che sono convinta che sarebbe arrivato comunque qualcuno al posto tuo a farlo. Volevo che qualcuno mi svegliasse dal torpore, dai nomignoli degli ultimi quattro anni, dai tiamolosaichetiamo detti come un rosario e come questo avevano perso ogni senso d’esser recitati.
Non eri bello, non eri affascinante, eri notevolmente più grande di me, ma avevi la testa e…

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Lì, dove sono io

Camminavo per Alfama, per le strade le note del fado. Se non ci sei stato non è possibile descrivere cosa si prova. Sentirsi sola nella sua accezione migliore. Prendere possesso di tutti i sensi e respirare. Mi sono fermata per una rua, non importa quale, ho chiuso gli occhi e ho sentito me, quell’essere che non ha bisogno di altri per sentirsi. Dopo esserci stata comprendo quella saudade che Lisbona ti può lasciare addosso. La mia è una saudade dettata anche da questo momento strano, forse non il migliore, ma sono queste le cose che ti fanno crescere. E sì, cresci anche a quarant’anni. È come la magia del fado, una tristezza che ti invade ogni singola cellula, struggente, devastante, ma di una bellezza ammaliante. E in questo momento vorrei essere in cima al castello, davanti alla distesa di case e il rio Tejo luccicante sotto il sole, lontana da tutto e così vicina a me. Adesso il mio contatto con me stessa è relegato a una stanzetta vicino casa, dove ogni settimana svuoto quel che fa tremare la mia autostima davanti a un uomo che cerca di portarmi verso l’essenza dei miei problemi. Vorrei rileggermi tra qualche mese, sorridere e sentirmi a Lisbona, ovunque io sarò.

Home is where my melancholie is

Essere malinconici e nostalgici significa vivere con i ricordi eternamente stretti tra le dita. Avere biglietti di treno e scontrini sbiaditi dentro scatole, biglietti dei concerti appesi alla parete, foto su foto nella memoria di computer e telefoni. Non ho mai davvero lottato contro questo mio difetto che mi porta a conservare e conservare, non solo materialmente.
Coltivo con cura i ricordi, quelli dei posti, per esempio. Tutti quei luoghi che ho consapevolezza che non rivedrò.
La casa della mia infanzia, dove le chiavi rimanevano sempre attaccate alla porta, per chiunque venisse a trovarci. La stanza d’ingresso, dove mi mettevo naso contro il vetro a guardare la gente o solo la pioggia; Dove coi miei fratelli preparavamo barchette di carta per farle trascinare via dai rivoli che si creavano in strada sotto i forti acquazzoni (questo momento che adesso è scolpito in inchiostro sulla mia pelle, tre barchette, quella centrale è rossa, quella sono io). La camera condivisa da tutti e tre e io e mia sorella che parlavamo a lungo dopo aver spento la luce. La cucina con il camino per le caldarroste e le pignate. Il giardino teatro dei primi sparuti e rari fiocchi di neve che mi portavano poi a piangere delle mani bruciate da quel freddo sconosciuto.
La prima gelateria in cui ho lavorato, appena quattordici anni e già mi destreggiavo dietro il bancone tra palette e macchina per la panna montata, che tanto di anni ne dimostravo già almeno 18. La casa dei proprietari proprio sotto il locale, con i freezer a pozzo dove trattenersi un attimo mentre posavo le torte gelato appena fatte, tiravo un respiro, godevo del vapore ghiacciato che veniva su a contrastare lo scirocco sulla pelle.
La casa della signora Adalgisa, in una via fuori le mura di Urbino. Quella dove il gatto, sordo quanto la padrona, passeggiava sui miei disegni noncurante delle mie urla. Il volume alto del televisore risuonava in ogni stanza, anche quando cercavo di concentrarmi nello studio. Altri vetri da oltrepassare con il mio sguardo, attendendo quella golf blu che mi ospitava per le prime esperienze sessuali che mi portavano nel mondo adulto. Un primo maggio, quando l’Adalgisa non c’era, a guardare il concertone e pensare che avrei voluto essere lì, mentre oggi penso: “Mioddioquantagentemacomesifa”.
Poi la stanza condivisa con Stefania la fanatica di chiesa, ci si maltollerava, cercavamo di esserci il meno possibile, tenendo uno schema di turni taciuti ma ovvi. Uno dei posti dove credo di aver pianto e scritto tantissimo, i quaderni fitti di pensieri che sono da qualche parte, a casa dei miei. La cassetta di Carmen Consoli consumata quasi quanto quella di Mina a sovrapporre alle strofe le immagini di qualcuno che oggi mi chiedo come abbia fatto a farmi perdere la testa. Le foto prese dalle riviste e appese al muro bianco per sentire quello spazio qualcosa di mio.
La stanza alle Serpentine, che si affacciava sul grande salone comune, che chiamarlo salone fa un po’ ridere, ma lì condividevamo i momenti con le altre ragazze. Le orecchiette fatte tutte insieme, la festa di compleanno mia e della madrilena Ana, prima che si scatenasse l’inferno delle feste a ripicca e gli urli per una tranquillità che non c’era mai. La scopa puntata contro la porta esterna quando a due passi da lì c’era stato un assassinio di cui ancora ignoro movente e killer. Dalla finestra ho ammirato i tramonti più belli della mia vita, Urbino ha sempre regalato rossi infuocati su colli a perdita d’occhio o le immense distese di neve, quella vera, che a volte costringeva a non muoversi.
La prima casa milanese, gli abbaini che colavano addosso calore d’estate e pioggia d’inverno. Un’altra camera da dividere per tre, con tanta difficoltà, i vecchi mobili e il pavimento in linoleum, adattarsi era uno stile di vita. I nuovi amici a riempire il poco spazio della cucina, amici persi, amici ritrovati, chi è diventato qualcosa di più e allora non lo avrei nemmeno immaginato.
Poi le liti con Anna e Valeria, le accuse di farmi troppo i cazzi miei, da lì ho capito che io non sono fatta per la condivisione, che è vero, a me piace fare i cazzi miei, ma giuro che pulivo, portavo giù la spazzatura e compravo candele per profumare la casa.
Quella che seguì è difficile definirla casa: pareti rivestite di legno, una finestra che si ergeva su quindici metri quadri scarsi, a riscaldare ci pensava la stufa elettrica, mentre in bagno ho imparato dei favolosi numeri da contorsionista per stare tutta nella doccia. Il computer sul tavolo per scrivere la tesi quando non ero nella pizzeria di Porta Ticinese a sfamare orde sotto effetto alcolico che erano gli impiegati in pausa pranzo del giorno dopo. La pizzeria e casa, nei miei ricordi, si fondono come fossero un posto solo e poco altro vedevo se non la strada alle quattro del mattino –  “Che ce l’hai cinquecento lire?” – non ho mai contato i passi che separavano la pizzeria dalla stanza accanto alla ferrovia e non avevo paura, notte fonda a percorrere tutto il naviglio Pavese fino oltre il ponte, chiudere la porta sull’imperante odore di fritto della ringhiera e toccare il letto con tutto il corpo in un colpo solo. Insieme alla tesi prendeva forma la mia paura del futuro, quella sensazione terrorizzante di essere diventata grande e da lì in poi dovevo “fare sul serio”. Come se in tutti gli anni precedenti avessi scherzato poi.
Faccio un salto temporale, tralascio la mia casa da signora sposata (e prima convivente), che se devo dirla tutta quel periodo lì ha contorni sbiaditi come una cartolina di sessanta anni fa lasciata nell’umido di una cantina.
Penso alla prima vera casa da sola. Tra le campagne nebbiose della pianura lombarda. Se quella casa potesse raccontare cose su di me, mia madre mi disconoscerebbe. Era bello avere un piccolo cortile davanti casa, ho pesino provato a metterci delle piante, ma io delle piante sono una grande esperta nella teoria, nella pratica sono un’esperta nel farle morire.
Mi sono chiesta tante volte come saranno cambiati questi posti nel corso degli anni, chi li abita e li popola adesso. Qualcuno, almeno nella parte esterna, posso ancora vederlo: la casa di quando ero piccina ora non ha più la porta con il vetro per guardare la pioggia, ha una porta da garage e immagino che non sia più una casa pertanto; sono passata davanti alla gelateria in agosto, dopo qualche cambio di gestione, per la prima volta era chiusa e lasciata a se stessa.
La casa in cui vivo ora non è una reggia, quaranta metri quadri che formano gli spazi sufficienti a farmi stare bene. Ha delle pecche, la costruzione è vecchia, il bagno non è mai stato ristrutturato e ha delle piastrelle verdi ospedale con le quali ho giocato per abbinare tutto ciò che c’è dentro, anche lo spazzolino. Quando una cosa è tendenzialmente brutta la soluzione è enfatizzare i difetti al punto da renderla, se non bella, almeno ironica. Insomma, io torno in quella casa, nel mio disordine, nei mille lamenti per quello che manca e mi sento accolta. Questo è. Dico tante volte che dovrei cambiare, che potrei trovare qualcosa di meglio con quello che spendo, e in fondo al cuore so che non è solo una questione di pigrizia, io un’altra casa forse non la cerco perché sono nostalgica ancora prima di lasciarla. E spero di non doverlo fare a breve.

Firenze, lo sai.

Sto ancora mettendo a posto una valanga di pensieri, dubbi, paure, perplessità e scriverne non verrà forse facile, ma ne sento il bisogno.
Non dirò quanto era bella Lisbona, son tornata da quattro giorni e sembra passata una vita. Quando gli eventi ti travolgono anche un giorno solo sembra denso come l’olio.
Mi trovo a ridiscutere la mia vita, per com’è, per come è stata negli ultimi diciassette anni, più o meno. La crisi nella mia azienda serpeggia da anni, abbiamo attraversato due blocchi di licenziamenti che mi hanno procurato una gastrite e molte ore di sonno perse, le guance rosicchiate come faccio sempre quando sono tesa. Sono tornata a lavorare mercoledì e quelle che erano voci della chiusura della sede di Milano sono diventate sempre più consistenti. E potrei ritrovarmi catapultata a Firenze nel giro di un paio di mesi. Io a Firenze sono sfuggita già tanti anni fa, quando ci lavorava il mio allora marito e no, non voglio andare a viverci. Che tanto poi si sa che è una tattica per liberarsi di tanta gente senza che l’azienda ne soffra troppo. Io mi libererei volentieri di questa azienda che da dieci anni mi da sì da mangiare, ma mi fa tremare, non mi fa crescere, mi tiene incatenata a un lavoro che non amo particolarmente, con qualche piccola eccezione.
E mi ritrovo in ufficio in questo sabato mattina a organizzare una sfilata che vorrei fosse l’ultima, ma nel migliore dei sensi, quello in cui riesco finalmente a trovare un altro lavoro con cui fare nuove esperienze, sentirmi di nuovo viva e non continuamente minacciata, scoglionata, in preda al mal di stomaco. Non finisce mai.
Milano è casa mia, lo pensavo ancora senza il patema che sto vivendo, su un treno che da Sintra mi riportava a Lisbona. Diciasette anni in cui hai costruito rapporti, conoscenze, hai scelto delle case e l’ultima non sarà bellissima, ma è il nido. Diciassette anni che sono serviti a innamorarmi di una città, per niente facile, ma che ormai sento mia, che sta alla parola casa ormai più di quanto non ci stia il Salento. È una ferita lasciarla, una ferita che fa rotolare giù lacrime in tram mentre programmo una serata con amici e penso che presto non potrò più farlo. Perché è inutile prendersi in giro, la lontananza mette alla prova le coppie, figuriamoci gli amici. E non le voglio sentire le frasi di circostanza “Ma sono poche ore di treno” “Puoi andarci e continuare a cercare lavoro su Milano” “Ma Firenze è una bella città, ti troverai bene”. NO. Lo so che sono in una situazione semi privilegiata rispetto a tanti miei colleghi, non ho legami, non ho la famiglia, devo fare fagotto, i gatti sotto le braccia, e andare. Non è così semplice. Mi sento veramente come quando qualcuno ti molla e piangi nei posti in cui siete stati insieme e piangi nel supermercato e piangi anche per strada fottendotene di chi ti guarda e del mondo in generale. Se me ne andrò dovrò lasciare casa, so di poter contare su molte persone che potrebbero ospitarmi ogni tanto, ma cercare lavoro è già difficile stando qui, come può essere fattibile lontana così tanti km? Firenze e io abbiamo una storia che affonda le radici nella mia infanzia. Quella città era una visita annuale al Meyer, quando la vita mi stava scivolando dalle mani; è stata meta di viaggi di piacere (e sì, non dico che non sia bella); è stata la città dove non ho scelto di vivere e fare la moglie, la madre, la casalinga. Abbiamo mille conti in sospeso e vorrei rimanesse il posto dove passare dei weekend, quello è il posto che le ho dato nel mio cuore.

Cosa sei disposta a perdere?

Certe cose arrivano all’improvviso anche in un anonimo lunedì.
Quando sei convinta di esserti lasciata alle spalle la persona che più ti ha segnata nella vita.
Quando stai spendendo energie dietro a qualcosa che ti intriga, anche se non pensi ti porterà da nessuna parte, ma la vuoi, come un bambino vuole quel giocattolo.
Quando stai facendo un bilancio su quanto potresti essere adatta a un impegno che duri e che contempli anche la condivisione degli spazi.
Quando pensi di amare la tua indipendenza popolata solo da presenze intermittenti, oltre ai due gatti.
Succede che arriva un messaggio che è come un’ondata imprevista, che ti costringe a rivalutare tutto, la tua vita, il tuo futuro, tutte le riflessioni fatte in maniera empirica.
Posso prendermi del tempo, ho un viaggio programmato tra due giorni che ad averlo previsto non sarebbe potuto cadere nel momento più appropriato. E lascio tempo per riflettere, perché adesso certe parole suonano surreali, continuo a rileggerle.
Avrei pagato per sentirmi dire una cosa così nei corsi e ricorsi di una storia.
Ora sono dubbiosa, incerta, piena di se, di ma, di dolori accumulati, di pensieri e sentimenti contrastanti e invece la cosa migliore da fare è non pensare, distrarmi, vivere il mio viaggio e lasciare tutto per il ritorno.
Fosse così facile, non avessi un turbine di immagini nella testa, un film perpetuo in cui rivedo tutte le volte che sono stata male, ma pure quelle in cui stavo tremendamente bene. Ho questo tuffo al cuore continuo, una domanda che mi gira in testa: cosa sono disposta a perdere? Sarei capace di accantonare le storielle divertenti, alcuni spazi solo miei, cose che potevo vivere per me senza dover rendere conto a nessuno? Sono pronta a pianificare diversamente il mio futuro?
Conoscendo fin troppo bene chi ho dall’altro lato aspetto. Aspetto che ci sia un incontro che chiarisca fino in fondo le intenzioni, mi prometto di non cascarci subito, sento di aver bisogno di inconfutabili prove di rispetto e d’amore. Ho anche bisogno di tempo per sistemare tutti i pensieri nella testa e capire se, arrivando ad avere tutte queste prove, voglio ricominciare e fare posto a una persona che pensavo indimenticabile e insostituibile e che negli ultimi tempi era diventata solo un fantasma, ingombrante, ma un fantasma.
La citazione nel titolo è del tutto involontaria, a differenza di altre volte, il caro Lorenzo ha solo fatto sua una domanda che sta lampeggiando nella mia testa da ieri.

così — senza immagini

salgono dallo stomaco, passano per la gola e arrivano sul bordo degli occhi [fotografia di me che le scrivo, per bloccar loro la strada]

via — senza immagini

Confessioni di una falena

(ma prima ero un vampiro)

Sciorteils

Mi garba scrivere racconti brevi. Dove meglio di qui, che non rompo i coglioni a nessuno?

AGRUMI

Spremute periodiche di una viaggiatrice senza meta

io ricomincio da me

e ora siamo in 3...

Firstime in Boston

Pensieri disgiunti in universi congiunti.

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alcuni aneddoti dal mio futuro

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